F1 Amarcord – A 16 anni di distanza, andiamo a ripercorrere la mitica “Alba Rossa” che consegnò alla Ferrari il primo titolo dal 1979
Ci sono giornate che restano scolpite nella memoria, che diventano patrimonio di tutti. Nella mente dei tifosi della Ferrari e di Michael Schumacher, tra le tante, un posto di riguardo è occupato da questa data: 8 Ottobre 2000. Uno spartiacque nella storia, e del Cavallino Rampante e del Kaiser. Come disse Todt al tedesco nell’immediatezza del successo nipponico: “… d’ora in poi, nulla sarà più come prima“. E infatti, dopo un digiuno lungo 21 anni, quella vittoria spianò la strada ad un dominio estesosi per tutto l’arco di un quinquennio. Il periodo d’oro della Ferrari e di Michael Schumacher.

E’ arrivato il momento di aprire la scatola dei ricordi. Quelli di un ragazzino dodicenne (diamine, come vola il tempo), che però, grazie all’opera di “indottrinamento” operata da parenti appassionati, seguiva già da tempo, con passione e trasporto, le vicende della Ferrari, del Kaiser e, in generale, di uno sport amato a 360°. Proprio con l’arrivo del tedesco a Maranello, nel 1996, cominciai a seguire per davvero la Formula 1, con le prime delusioni (su tutte Jerez 1997), le prime gioie. Come dimenticare le prime levatacce all’alba, oppure le domeniche d’estate al lido, tutti insieme davanti alla televisione. Il tutto con un unico desiderio, che Schumi riuscisse finalmente a riportare la Rossa dove meritava, in cima al mondo.
Già all’epoca mi appassionava tanto la storia di questo sport. Ragion per cui ero a conoscenza, bene o male, di quanto era accaduto nei 20 anni precedenti. Dopo la vittoria di Jody Scheckter nel 1979, la Ferrari aveva alternato periodi di magra, a volte anche terribili (biennio 1992-93), a cocenti delusioni. L’aria cominciò a cambiare nel 1993, quando Montezemolo chiamò sul ponte di comando un francese, Jean Todt, reduce da un lungo periodo di successi come direttore sportivo della Peugeot. Il suo esordio come direttore generale della Scuderia avviene al GP di Francia dello stesso anno, ereditando un team in profonda crisi. Sotto la sua guida riorganizzatrice, pian piano tornano le vittorie (Berger nel GP di Germania 1994 ed Alesi nel GP del Canada 1995). Il vero cambio di passo arriva tra la fine del ’95 e del ’96, quando in successione, dalla Benetton, arrivano Schumi, Rory Byrne e Ross Brawn. Il “Dream Team”, si sarebbe detto qualche anno dopo.

La Ferrari torna in pianta stabile a giocarsi il Mondiale, benchè, soprattutto nel biennio ’97-’98, si trovi sempre ad inseguire l’avversario di turno, riducendo il gap nel prosieguo della stagione, con un gran lavoro in fabbrica e in pista, oltre che, ovviamente, con le doti di un fenomeno qual è Michael. Ma il titolo continua a sfuggire, a sembrare una maledizione. Per tre anni di fila, si arriva all’ultima gara pieni di speranza, anche davanti, come con Irvine nel 1999; ma niente. Prima Villeneuve poi Hakkinen (due volte), stroncano ogni sogno di gloria.
Il 2000 dev’essere l’anno buono, anche perché la pressione comincia a farsi davvero pesante. A memoria, ricordo un’atmosfera particolare, soprattutto nella prima parte di stagione; un insieme di sensazioni positive, che facevano davvero ben sperare. E in effetti, l’avvio di campionato di Michael è fantastico, con una Rossa, la F1-2000, che finalmente è super competitiva sin dall’inizio. Con 5 vittorie nelle prime 8 gare, il Kaiser si ritrova ad avere 22 punti su Coulthard e 24 sul rivale più pericoloso, Hakkinen. La strada sembra ormai in discesa, o almeno così pensavamo tutti. L’estate, lacrime di Barrichello ad Hockenheim a parte, riserva solo delusioni. Complice il recupero prestazionale della MP4-15 e tre ritiri consecutivi di Schumi (Francia, Austria e Germania), il margine costruito all’inizio evapora, tanto che Hakkinen, dopo la vittoria di Spa, con tanto di sorpasso fenomenale al ferrarista con Zonta nel mezzo, passa a condurre (74 a 68).

Ricordo perfettamente i giorni successivi al GP del Belgio. Il clima era tetro, la delusione tanta, la sensazione che tutto per l’ennesima volta stesse scivolando via dalle mani, opprimente. Mancavano 4 gare alla fine. La Scuderia, per fortuna, fece quadrato e, da Monza, partì la riscossa. Un uno-due, quello dei gran premi d’Italia e degli Stati Uniti, micidiale, che ribalta ancora una volta la situazione, permettendo a Michael, a Suzuka, di poter chiudere il discorso, essendo avanti di 8 lunghezze (88 a 80), anche grazie alla fumata bianca del motore Mercedes della McLaren di Mika ad Indy (con annesse reazioni che ben potete immaginare…).
Il redde rationem nipponico non può che vivere di un unico, epico duello, quello tra Michael Schumacher e Mika Hakkinen. I due se le danno di santa ragione sin dal venerdì, quando anche una scossa di terremoto scuote la giornata di Suzuka. Sabato 7 Ottobre andai a scuola tutto elettrizzato, dopo aver assistito ad una sessione di qualifiche semplicemente spettacolare, dove i due sfidanti si sfilarono la pole a vicenda varie volte, in un duello al fulmicotone, che vide spuntarla il tedesco per 9 millesimi. L’attesa per la gara si faceva spasmodica con il passare delle ore, con tanto di notte assolutamente insonne. All’alba, insieme a mio padre, la postazione era pronta, divano e tv a volume non eccessivo, vista l’ora.
F1 GP Giappone 2000: Gli highlights della gara
https://youtu.be/L24_zKpe2jE
Al via, però, come accadeva non di rado, Schumi si fa fregare dallo scatto bruciante di Mika, che balza al comando con la sua McLaren. Nonostante tutto, però, il finlandese non scappa via. Passata la prima serie di soste, anche grazie ad una leggera pioggia, il Kaiser ricuce il gap, fino a tallonarlo. Si capisce che sta arrivando il momento decisivo, quello del secondo pit stop. Hakkinen lo effettua alla fine del giro 36; Schumacher continua per altri tre passaggi, tirando come un dannato. La sua sosta dura appena 6 secondi e, quando torna in pista nettamente avanti al rivale, il primo urlo può partire. Mancano ancora 14 giri. Poco, direte voi. Ma sembravano non finire mai. Michael distanzia ulteriormente Hakkinen, per poi amministrare. Gli ultimi istanti prima del traguardo li faccio con le lacrime agli occhi. Lacrime di gioia, per un sogno che si realizza. Un’emozione indescrivibile, comune a tutti i ferraristi, alla squadra e a lui, Michael Schumacher, che incredulo, all’interno del suo missile rosso, batte le mani più volte prima sul volante poi sul casco, per poi lasciarsi andare ad un pianto liberatorio, in un team radio che, ad anni di distanza, mette ancora i brividi.

Quello che è successo dopo, come si suol dire, è storia. Io, nel mio piccolo, sono e sarò per sempre grato di aver potuto vivere tutto ciò, in prima persona e consapevolmente. Nella speranza, mai sopita, che prima o poi il protagonista principale, Michael, possa tornare tra noi, raccontandoci, casomai, aneddoti e particolari sconosciuti al grande pubblico.
#keepfightingmichael
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